Danze macabre: a proposito de Il divo di Sorrentino
Agnese Maria Fortuna
Il Divo di Sorrentino è indubbiamente un bel film. Nonostante la lettura fastidiosa, monocorde e piuttosto piatta, del personaggio di Andreotti – Servillo è insopportabile nella sua tetragonità –, funziona. Una combinazione ben riuscita di tavole di Pazienza e di barocco anni ottanta napoletano. Coeso, ritmato, cupissimo, amaro, acido, pesante, pensante, asfissiante. Un certo pensiero è sempre asfissiante, nonostante l'ironia. Eppure ha persino l'apparenza di una qualche leggerezza. Realtà degli eventi a parte. Insostenibile.
Certo viene da chiedersi: il potere sporca quasi quanto il sacro? Si pensi all'enfasi sulla scena ripetuta della confessione: confessione ad usum delphini. Confessione politica. Ricevuta con lo stesso grado di falsità/verità dubbia con cui è proferita. Fa parte del gioco. Ed è curiosa la mescolanza di pretese di trasgressione e di pratiche rituali dell'ambiente pomiciniano: è una maniera piuttosto efficace di ostendere una certa quintessenza massonica in chiave postmoderna. Come è singolarmente riuscita la messa in teatro di una delle dinamiche più classiche della storia dei potenti.
Arriva un momento, in genere alla vigilia dell'agognata consacrazione definitiva, in cui i vicari e i succubi si alleano inconsapevolmente con i detrattori e gli avversari per scavare la fossa dove loro stessi sprofonderanno insieme al castello del potente in carica. Che non di rado, come in questo caso, riuscirà in un modo o nell'altro – doppio salto mortale da atleta olimpionico del politicamente corretto – a non esserne travolto e distrutto definitivamente. Tutto sommato potrebbe essere un buono spunto per riflettere sul nesso tra ruolo e identità. Un memento per i deboli: quanta parte della loro identità è costituita dal ruolo cui si prestano. Soltanto chi sa discernere tra propria identità e proprio ruolo sa adattarsi. E troverà il modo di sopravvivere. Soltanto chi sa essere molteplice riesce a comprendere il gioco dell'avversario. Ma a volte si sbaglia anche lui.
Perché è facile sottovalutare le dinamiche di rivalsa dei deboli. È facile convincersi che gli altri non saranno tanto stupidi da non capire che scavare la fossa al potente cui si è vincolati mani e piedi è prima di tutto scavarla a se stessi. E che questa sia una ragione sufficiente per non farlo. Il debole non sempre è animato dall'impulso alla sopravvivenza, anzi! Chi si dispone ad asservirsi non è animato dallo spirito di conservazione. Il servo del potere nutre uno strano odio/amore per se stesso: ed è proprio questo che lo rende uno strumento dallo stomaco tanto peloso. E la sua piaggeria piuttosto appiccicosa. Appiccicosa della melassa del masochista più o meno palese. Alcuni lo capiscono: i folli, perché sanno che lo strumento più efficace del potere è la suggestione. Ma se uno non è folle, tende a non rendersene conto: preferirà utilizzare la ragionevolezza piuttosto che la suggestione. La suggestione, eventualmente, la riserverà per l'uditorio, il mondo che subisce e rimane a guardare. La strategia della tensione.
Prendiamo l'immagine di Riina che si fa accompagnare dall'autista delatore a legare i sarmenti di pomodoro nell'orto di una campagna riarsa. Un personaggio come Riina sa benissimo che verrà tradito, quando, come e da chi: lo sa già in anticipo, magari ha anche disposto che così fosse, e se ne fa forte. Lascia fare, perché la sua arma è la suggestione, e la suggestione ha ombre molto lunghe e terribilmente concrete. Un personaggio come Andreotti ha la stessa presenza nella situazione, la stessa previdenza, ma tende ad escluderla come possibilità non ragionevole. Riina in carcere sembra continuare a governare il suo impero come quando era latitante: nulla fa pensare che non sia così. Magari in carcere gli riesce meglio di prima. Può implicare anche tutto il marchingegno della legge, sfruttare altre tonalità della suggestione. Andreotti non può che ripiegare su una strategia autoconservatrice, deposto il potere pubblico e forse anche quello privato.
Un politico illuminista, per quanto devoto del pragmatismo machiavellico più deteriore, tenderà sempre a misurarsi con un ideale e soltanto artificiosamente si compiacerà di venire a patto con la suggestione. Chi ha in pregio l'intelligenza, tende sempre a dare un vantaggio al proprio interlocutore. Errore grave. Per quanto sappia che tutti possono benissimo stare fingendo, e lo fanno, penserà che siano in grado di valutare la situazione e scegliere ragionevolmente. Errore madornale.
Forse la figura più drammatica è quella del revenant, lo spettro che ritorna: Moro. Colui che ha confuso ruolo e mandato. L'idealista della situazione. Quello il cui destino è deciso dall'impatto con gli eventi. Bene o male, irreversibilmente.
Qui è messa a nudo un'amara verità: se punti tutto sul rosso perché ci credi, o sei terribilmente fortunato o terribilmente fregato. Se non reciti, o meglio reciti la parte in cui credi fermamente, il gioco detterà le sue regole fino in fondo. E il gioco è sempre retto dal caso e dalla necessità. L'una a braccetto dell'altro, perché gli esseri umani leggono l'una e l'altro, e li capiscono e li interpretano, così. Se sei sincero non sarai mai un buon giocatore. Il buon giocatore tiene i piedi su due staffe, e magari tre o centomila. Che siano staffe immaginarie o reali, non importa: l'importante è che gli altri non dubitino che siano reali. Il folle sarà più spregiudicato: non avrà il minimo scrupolo nel farsi solido su staffe irragionevoli. La fantasia di Andreotti, che ritiene che avrebbe saputo tenere testa alla Brigate Rosse se lo avessero rapito in vece di Moro, è patetica. Nessuna scaltra ragionevolezza può tener testa a chi segue la logica della corte suprema in stato d'assedio. Eppure, un buon politico illuminista dovrebbe ben conoscere la storia del Terrore.
La danza macabra della “cattiva corrente” inanella intese e omicidi. E la morte cavalca una motocicletta vincendo tutte le scommesse. E poi non resta che la vita postuma. Lascito gravoso, requiem per una coscienza senza luce.