Dissentire si può. Talvolta si deve

Gianni Vannini

pamphlet



La risposta più frequente che sentiamo dare dalla “gente comune” alla canonica domanda: “Che ne pensa di come i governi nazionali stanno gestendo la pandemia?” è la seguente: “Sono un po' perplesso, ma chi sono io per poter dire se certe scelte sono giuste o sbagliate?” Già, perché la narrazione dominante su questo tema è che degli esperti  in materia sanitaria, e solo loro, possano decidere  i codici di comportamento di intere popolazioni. Ora, a parte il fatto non trascurabile che i cosiddetti esperti sono in palese disaccordo e si contraddicono continuamente l'un l'altro contraddicendo spesso anche quello che loro stessi hanno dichiarato pochi giorni prima, la questione principale è però un'altra: decidere fino a che punto le libertà individuali, l'interesse pubblico e il diritto alla salute si debbano limitare vicendevolmente e quale di questi valori di volta in volta debba essere considerato prevalente è un problema decisamente politico, oltre che lapalissianamente etico, e la sua soluzione non può essere lasciata a un litigioso team di tecnici, per quanto accreditati essi possano essere. E, soprattutto, quando si parla di diritto alla salute, non stiamo parlando di qualcosa di astratto: per metterlo in pratica ci vogliono investimenti, strutture, personale qualificato. Tutte cose la cui realizzazione dipende in maniera imprescindibile dalle scelte politiche dei governi, dalla loro volontà di investire nel pubblico o piuttosto, in mancanza di tali investimenti, di favorire la crescita e il prosperare della sanità privata. Se si sceglie, invece che  programmare con congruo anticipo una task force (come piace dire oggi) pronta a fronteggiare emergenze come quella del Covid, di tirare avanti con provvedimenti raffazzonati ed improvvisati, che puntano più ad agire sulla percezione da parte della gente che si sta comunque facendo qualcosa che all'effettivo risultato (soprattutto sul lungo periodo), è evidente che, non solo il problema non viene risolto, ma non si creano neanche le condizioni per affrontare in futuro altre emergenze di questo tipo. C'è poi da sottolineare quanto sia fuorviante un concetto che si vorrebbe trasmettere all'opinione pubblica: quello secondo il quale “la vita umana viene prima di tutto”. In primo luogo, come è evidente a tutti, anche facendo coincidere la vita umana con la mera sopravvivenza, non pare che la strategia dello “stiamo tutti a casa” abbia gran che funzionato visto che i delitti (o comunque le violenze) tra le mura domestiche in questi mesi non sono certo diminuiti (per usare un eufemismo) e lo stesso vale per gli incidenti sul lavoro, perché lo “state a casa”, a parte la primissima fase del lockdown, non vale certo per i lavori usuranti e pericolosi, per i quali non esiste alcuno “smart working”. Ma ciò che più mi preme sottolineare è che quello che si vuol far passare è un concetto di vita e di salute che sembra non preoccuparsi minimamente della psiche, del suo nutrimento e del suo benessere ma in realtà neanche troppo del corpo, cui pure gioverebbe enormemente lo stare  all'aria aperta e l'attività sportiva (che non si può certo identificare con quella solipsistica del footing). Lo spregio dimostrato dai governanti di tutto il pianeta per il mondo dell'educazione, della cultura e dell'arte, pur mascherato dietro un malinteso senso civico, non fa che confermare come, nelle società in cui viviamo, la scala dei valori sia purtroppo assai ben definita e che il benessere fisico, morale e psichico delle persone siano agli ultimi posti di questa scala. Con tanti saluti al valore sacro della vita.                                                                            

Signaler ce texte