LA GRANDE OMBRA

Saveria Gattini

un nonno con il gonnellino...


                                                 LA     GRANDE  OMBRA   



Siamo all'epilogo. Poche battute ancora, sipario. E la protagonista non si rialzerà dal letto di morte per ricevere gli applausi.

Termina qui questa sofferenza inutile, assurdamente prolungata per quasi un mese e  porta via con sé ottantotto anni di vita, carne, ossa, mani, occhi, cuore. Gioia, lacrime, bellezza, amore, un marito, due guerre, tre figlie, quattro nipoti. Margherita, mia nonna. 

Lucida e arrabbiata ha vissuto fino in fondo il dolore del suo corpo e l'amara consapevolezza della sua situazione, così simile a suo dire a quella del tenente Drogo nel deserto dei tartari, aspettare senza sapere esattamente cosa, come e quando. In me la speranza che la sua fede le suggerisca almeno il perché. 

Ora però il filo che la legava al mondo si è allentato e tra le lenzuola di un letto odiato ed estraneo rimane solo il suo corpo, trattenuto a forza da un liquido simulacro di vita che i medici insistono a pomparle nel sangue. La mente no, quella non sono riusciti a fermarla e ora vaga lontano, in alto, un palloncino legato ad uno spago sempre più sfilacciato e sottile. E quel suono lacerante è l'anima che ci dà l'ultimo addio o il gas che esce dal palloncino forato? lontano, in alto, sempre più in alto. 

D'un tratto però accade qualcosa, il rantolo cessa bruscamente e il suo volto ormai quasi privo di espressione si solleva dal cuscino come  spinto da un'urgenza estrema, le mani da ore immobili sul lenzuolo si muovono affannosamente nell'aria. Ci guardiamo, la guardiamo, forse c'è ancora il tempo per un ultimo saluto, per scambiarci un'ultima carezza.  Ma lei non ci vede, figlie e nipoti non esistono più, il suo sguardo ansioso, i suoi gesti eccitati sono rivolti verso un uomo  appena entrato nella stanza, diretto al letto vicino. Ha i capelli bianchi,  le spalle larghe appena un po' incurvate.  Guardo mia madre che si è come impietrita, poi il viso le si scioglie in un sorriso e piano dice, guarda, assomiglia a papà. Cioè a papà mio, al Nonno. 

E per un attimo nell'uomo con i  capelli bianchi e le spalle larghe appena un po' incurvate, chine sul letto e sul suo personale dolore, pare anche a me di riconoscere qualcosa del nonno Angelo, quel nonno che solo le fotografie mi hanno reso familiare, morto quando io avevo appena due anni, portando via con sé un amore che mi è stato raccontato e  non posso ricordare ma solo rimpiangere. 

 Non accade più niente, l'uomo rimane di spalle e lei si riconsegna alla morte, lo sguardo fisso, le mani immobili, il naso sempre più affilato e il volto sempre più bianco. Ma ora finalmente l'attesa è finita e lei sa dove è diretta.

E poche ore dopo Margherita si ricongiunge all'amato sposo, tornato a prenderla per portarla là dove è stato solo per trenta lunghi anni. Lui dispiega  le ampie e candide ali da Angelo e, come in una tela di Chagall, volano via insieme nel tiepido cielo di una notte di aprile.


Il nonno, anzi il  Nonnone, con la enne maiuscola come Napoleone -mancava solo la coroncina. Il padre di mia mamma e delle due zie.

Angelo Maria Bergonzi, classe 1886, ufficiale di carriera come quasi tutti in famiglia, servizio negli alpini, grande fumatore,  varie campagne d'Africa, morto per  embolia polmonare nel 1959. Grado alla morte: generale. Era in pensione? No, a riposo, si dice a riposo, i militari non vanno in pensione. 

Generale di “corpo d'armata”, uno dei tanti termini misteriosi di cui è costellata un'infanzia e che suonava sorprendentemente simile alle esclamazioni che leggevo sui miei fumetti, “corpo di bacco!”, “corpo di mille bombarde!”. Intuendo l'irriverenza dell'accostamento, tacevo. Però bombarde era una bella parola ed evocava le pistole attaccate alle pareti dello studio della casa della nonna, insieme a  sciabole, pugnali, cappelli piumati, elmetti e altri cimeli di guerra.

Qualcosa però non tornava, il Nonnone era tanto buono, e allora perché 

maneggiava pistole e faceva la guerra?  Guerra e pistole sono cattive, e le bombe inesplose uccidono i bambini,  ammonivano inquietanti i manifesti appesi nei corridoi della mia scuola. Pensieri fugaci, da bambini riusciamo a superare le contraddizioni, a inghiottirle, e poi da cresciuti ce le ritroviamo dentro intatte, non digerite, appena un po' masticate. E allora dobbiamo decidere cosa farne. Per esempio diventare antimilitaristi e antimperialisti ma conservare dentro, con affetto indulgente,  il mito infantile del nonno …  D'altronde nessuno si  è mai addentrato in dettagli bellici o militari e tutto assumeva contorni fiabeschi e un po' irreali.

Da giovane aveva conquistato una montagna in Africa, in una guerra che non era una guerra, prima della Grande Guerra. Anche questa storia della montagna suscitava perplessità, per me la montagna era freddo e neve e chi la conquistava aveva giacconi pesanti con il cappuccio, scarponi chiodati e piccozza, come quel Bonatti  le cui imprese erano pubblicate su Epoca e lette avidamente dalla Nonna Maria, l'altra nonna, quella socialista e pacifista, contro armi e guerre.   Invece l'Africa (o Affrica come si trovava scritto su alcuni atlanti) era il caldo, vestiti leggeri e piedi nudi, deserto e cammelli, datteri, palme, banane raccolte mature direttamente dalla pianta, scimmie. E in Africa c'erano i miraggi e le fate morgane  e le oasi, acqua e vegetazione rigogliosa miracolosamente contesa alla sabbia.  Mi fu spiegato pazientemente che non è vero, in Africa non sempre e non dappertutto è caldo sabbia e deserto, ci sono addirittura monti con la neve, e poi l'altipiano, di giorno è estate e si va con le maniche corte -gli ufficiali no, la divisa le prevede solo lunghe- e invece la notte bisogna usare le coperte e chi esce deve mettersi il cappotto, certo solo gli adulti, i bambini non escono di notte e il cappotto nemmeno lo hanno …

Si diceva anche di un conoscente del nonno morso da uno scorpione e morto sul colpo: aveva appoggiato la giacca su un ramo e quando se l'era rimessa … zac!

Alla storia della montagna e della neve credevo per fede ma con un fondo di scetticismo, la paura degli scorpioni invece mi era entrata dentro e la sera scrutavo sospettosa sotto letto e poltrone anche se sapevo che qui da noi non sono mortali. Appena un po' velenosi e comunque solo d'agosto, mi rassicurò poi qualcuno, era inverno e io non guardai più sotto il letto, nemmeno quando tornò l'estate.

La nonna  e la zia, la Mamy e la Cicci , abitavano insieme e quando andavo a dormire da loro mi raccontavano del Nonnone e mi mostravano le sue foto, quasi tutte in divisa, anche quella del matrimonio. La più bella era appesa in  camera da letto e lo ritraeva già anziano, magnifico cappellone con la piuma e uniforme da generale degli alpini. O forse allora era ancora colonnello, chissà, non sono mai riuscita a orientarmi nel dedalo di mostrine, nastrini e gradi, ma per me la parola generale è tutt'uno con il suo ricordo o con l'invenzione di esso. Che di questo si tratta.

Ma la foto più affascinante era quella che si trovava in  salotto sopra un basso ripiano della libreria vicino ai romanzi di D'Annunzio e ai libri di poesia. Angelo ha quattro anni e siede su uno sgabello dalle lunghe frange, che ho sempre immaginato di velluto verde scuro; ha un'espressione seria e intenta, capelli corti con la divisa in mezzo, orecchie a sventola. Indossa stivaletti con i bottoncini e, meraviglia delle meraviglie, un vestito alla marinara con il gonnellino.

Sì, mi avevano spiegato che nell'ottocento fino ai cinque o sei anni i maschi non portavano i pantaloni e anzi spesso avevano anche i capelli lunghi, ma ugualmente mi incantavo a guardare quel gonnellino che per me rimaneva strano e suggeriva una relatività dell'abbigliamento e dei ruoli che me lo faceva sentire  più vicino e relegava in secondo piano pistole e pennacchi.

Quando ho sistemato il mio personale album di famiglia frugando in cassetti e scatole alla ricerca di copie non utilizzate per gli album di nonna e mamma, quella del gonnellino e quella del cappellone le ho messe lontane, separate da molte pagine per freddi motivi cronologici di cui mi sono poi pentita. E ora che il gioco della scrittura le ha con un po' di malizia messe accanto mi sembra invece che si riflettano l'una nell'altra come in uno specchio e comprendo meglio la simpatia e l'attrazione che ho sempre provato per quel nonno troppo presto perduto. Quasi che al di là dell'immagine mitica e agiografica che di lui mi è stata trasmessa se ne fosse formata in me un'altra, probabilmente altrettanto mitica e inventata, quella di un uomo a cui piaceva giocare e prendersi benevolmente beffe del mondo e che ha attraversato tutta la vita paludato in abiti non suoi, mantenendo sempre la stessa espressione seria e concentrata dei suoi quattro anni.

Questa raffigurazione ha ben poco in comune con l'icona familiare dell'eroe della guerra d'Africa, conquistatore della famosa (famosa?) montagna della Libia, uomo severo ma giusto benvoluto da superiori, colleghi, attendenti e inferiori tutti, padre amato e forse un po' temuto; ma delle mie foto di famiglia ho il diritto di fare ciò che voglio, e non è neanche detto che si tratti sempre della stessa famiglia …

Ad aiutare il gioco di travestimenti ed equivoci arriva anche il ricordo di una fantasia con cui amavo intrattenermi verso i dieci anni. Ero abbastanza grande da non prendere troppo sul serio questa storia e quindi non mi preoccupava minimamente l'inverosimiglianza della  trama. L'idea  era che ci fosse stato uno scambio di persona alla fine della guerra, la seconda, quando Angelo era tornato dal campo di prigionia: ufficiale in Africa, nel 1941 era stato portato in India dall'esercito britannico, dopo che questo gli aveva tributato il cosiddetto “onore delle armi”, termine dai contorni misteriosi e vagamente esilaranti proprio come generale di corpo d'armata. Per dei motivi che mi sembrava superfluo immaginare dato che prima o poi ce li avrebbe spiegati lui stesso, quello tornato a casa quattro anni dopo (la vigilia di Natale, come il signor March, il padre di Piccole donne!) era un suo sosia, così uguale da trarre tutti in inganno e lui era rimasto in India o forse lo avevano portato in Inghilterra, in preda a una forte amnesia o per oscuri motivi militari e diplomatici. Quindi non era morto nel 1959 per embolia polmonare e presto sarebbe davvero tornato tra le lacrime di gioia di tutta la famiglia. E anche io sarei stata lì, finalmente. 

Non esistono foto mie con il Nonnone e questo ha sempre provocato  in me una piccola fitta di dolore e una profonda invidia per mia sorella e mio cugino che avevano non solo la fortuna di ricordarlo ma anche quella di comparire più volte ritratti al suo fianco, e infatti ho esitato un po' prima di attaccare sull'album una copia di quella che stava sulla scrivania dello studio, lo studio che avrebbe dovuto essere il suo se non fosse morto pochi mesi prima di traslocare nella nuova casa. Lui, ormai “a riposo” e quindi in borghese, le mani sulle spalle di mio cugino e mia sorella, nove e sei anni, sullo sfondo un palco e bandiere tricolori (in bianco e nero). Quella foto la conoscevo bene ma quando l'ho girata per mettere la colla ho letto per la prima volta la data scritta a matita da mia madre: 2 giugno 1957. Io ero nata esattamente il giorno prima e loro si facevano fotografare alle celebrazioni per l'anniversario della Repubblica – che poi cosa importava a lui della repubblica, era sempre stato monarchico!

La rabbia per l'esclusione da ricordi, celebrazioni e foto era però addolcita dai racconti di mamma, nonne e zie nei quali cui io comparivo come la preferita dei tre nipoti. Aveva perso la testa per te, si sosteneva, e si narrava l'episodio del Natale precedente alla sua morte, io saltavo come un grillo intorno alla tavola e lui mi imboccava con chicchi d'uva amorevolmente sbucciati uno per uno – quell'uva che tornerà in tanti Natali successivi anche se dovrò sbucciarla da sola, e che veniva conservata fin dall'autunno appesa a dei ganci perché non marcisse. 

Per gli altri nipoti non aveva mai fatto niente del genere, e nemmeno per noi figlie, aggiungeva mia madre forse  con un po' di rimpianto. E questa storia  dei chicchi d'uva in sé abbastanza banale perdeva i contorni reali, quella di un uomo ormai anziano e in pensione (“a riposo”!) che gioca con l'ultima nata della tribù, e come al solito sfociava nel mito. Un mito che aveva un buon odore  e emanava un calore confortante.

E lo stesso calore veniva dai corpi e dalle parole di nonna e zia che spesso, quando il ricordo di quella perdita inaccettata e inaccettabile si faceva più lacerante, mi stringevano forte con le lacrime agli occhi e dicevano: “Ci hai dato tanta gioia quando è morto il nonno”. 

Tacevo sconcertata e in preda a un vago imbarazzo che non potevo mostrare per il timore di offenderle. Tanta gioia, come, perché? L'ho capito solo quando sono cresciuta, e la solita frase veniva ancora ripetuta anche se più raramente. Per il solo e semplice fatto di esistere, con tutta l'irruenza e la vitalità dei miei due anni ignari dello strazio che le stava travolgendo.

Forse ancora una volta c'era stato un gioco dei ruoli, una sorta di scambio di persona, l'angelo guerriero se ne era andato lasciando al suo posto un piccolo angelo consolatore. E questo mio farmi carico senza alcun merito di tanto dolore portò con sé un grande dono che mise in me radici salde e profonde, talmente profonde che a volte le ho perfino dimenticate ma che nel corso della mia vita sono andata spesso a ricercare con forza per ritrovarne l'odore e il calore. Il dono della certezza di essere amata per ciò che ero, per il solo fatto di esistere, la certezza di essere capace di dispensare amore e gioia.

Un dono ambiguo, certo, e ho dovuto pagare un prezzo per questo. Nessuno ti ama sempre per tutto ciò che sei o potresti essere, un angelo consolatore ha teneri boccoli biondi e occhi azzurri e ride sempre e non può permettersi malumori, malinconia, collera, al massimo un po' di lacrime ogni tanto, fugaci come la pioggerellina di marzo (che picchia argentina sui tegoli vecchi …). Quelli erano sentimenti riservati ad altri, la mamma e soprattutto la sorella maggiore, la vedi in questa foto, a cinque anni era già ingrugnita, te invece eri sempre allegra, ti svegliavi e già ridevi. 

Un percorso faticoso quello intrapreso poi per tentare di capire dove si era dispersa la mia malinconia, la mia collera mai veramente esplosa, in quali anfratti di ombra si erano accucciate, quale strade avevano percorso per trasformarsi in lacrime da operetta e smorfie da pagliaccio e irrigidire il volto in troppi frequenti sorrisi mattutini. Uno scavo doloroso ma nel corso del quale hanno continuato a riaffiorare tenaci e inestirpabili le radici dell'amore, come a confortarmi o farsi perdonare.

Nonostante tutto quel mio mito odora sempre di buono.


E la sera in cui Angelo è venuto a portarsi via la sua Margherita a cavalcioni delle candide ali c'è stato ancora una volta uno scambio, un ultimo passaggio di consegne tra me e lui. E' volato via riprendendosi il ruolo di angelo consolatore e per compensare l'ambiguità dell'antico dono ed aiutarmi ad affrontare il mondo, orfana di nonne e nonni, ha lasciato nelle mie mani le sue armi di angelo guerriero. 

Imparare a usarle non è stato incruento, ha portato con sé nuove ferite e mattini senza sorrisi, vecchie cicatrici si sono riaperte e  finalmente ne sono sgorgate le lacrime, vere, di rabbia, paura, nostalgia, sofferenza. Di amore. I rumori di quelle battaglie sono ora lontani anche se ogni tanto un ricordo, un sogno, una frase riaccendono echi di antichi piccoli grandi dolori. Nulla è dimenticato ma tutto sarà perdonato. 

Ci hai dato tanta gioia. Mi hanno dato tanta gioia.






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