La sfida

tommasomeozzi

Una partita a tennis, due amici, un gatto, il guardiano rumeno degli impianti.


Piove. Ha iniziato quaranta minuti fa, mentre stavo preparando la borsa. La giornata è stata come sempre impegnativa per cui, in mezzo al torpore delle energie che si allentano, e ai pensieri che prendono il loro corso, come se volessero vivere da soli un'altra giornata, ho sentito appena il fruscio della pioggia sull'asfalto, sui vetri della camera.

Ho messo tutto: accappatoio, shampoo, pantaloni corti, maglietta. Poi ho tirato fuori la racchetta dall'armadio. Al centro della stanza, ho lasciato andare un dritto, un altro, poi un rovescio, mentre il gatto mi guardava spostando gli occhioni a specchio, senza perdersi nessuna mia mossa.

Oggi vincerò. Con la borsa in una mano e l'ombrello rosso stretto nell'altra sono uscito in strada.

La città è come un'apparizione, calata tutta insieme sull'asfalto si bea della pioggia senza emettere un grido.

Oggi giocherò contro Lorenzo. Non voglio sbagliare. So che lui è un tennista impulsivo, se riesco ad essere aggressivo nei primi colpi andrà nel pallone, non reggerà psicologicamente. Sono abbastanza certo che anche lui vuole vincere, anche se per carattere non lo ammette facilmente.

Ci lega un'amicizia profonda. Io l'ho visto diventare avvocato, me lo ricordo, un ragazzo timido, meticoloso fino quasi alla nevrosi, che si chiude in casa e studia sei mesi per l'esame di stato. Poi i primi clienti, scelti tra gli amici. Io, perso tra le mie velleità letterarie e tra confusi sogni di riscatto, che gli chiedo cos'è una "pratica", o un "parere", e che mi sfogo con lui perché una classe di politici è in grado di prolungare all'infinito i processi fino all'assoluzione. Poi le cose hanno iniziato a mettersi bene anche per me. Ora vengo pagato per continuare a studiare.

Ma ci sono cose che le parole non possono dire. Una nostra partita a tennis invece sì, può dirle.


Lorenzo non è negli spogliatoi. Mancano dieci minuti all'inizio della partita e lui ancora non c'è. Abita a pochi quartieri di distanza ma forse la pioggia lo ha bloccato. Anche se con un fremito immagino che si sia dimenticato della sfida, e che ora sia con la sua fidanzata, a rilassarsi, a casa. Contrariato inizio a cambiarmi, metto i vestiti "borghesi" nella borsa facendo attenzione che il cellulare resti a portata di mano. Lo chiamo, prima di dirigermi da solo al campo.

Quando già sto pensando di allenarmi alla battuta mentre lo aspetto, il cellulare suona.

– Tommy, dove sei?

– Ehi, sto venendo al campo. Tu tra quanto ci sei?

– Sono già qui. Campo cinque.

Entro nel grosso pallone di plastica che è la nostra arena di stasera. Ci raccontiamo degli ultimi eventi. Un nostro amico ha da poco avuto un figlio. Ho desiderio di essere generoso, ma non so come. Preso dall'entuasiasmo inizio a raccontare a Lorenzo quello che vorrei regalare alla bambina. E' un elenco bislacco, fatto di tutine, sonagli, giochi, scarpine. So che lui mi ascolta con benevolenza, per cui non mi preoccupo di apparire sconclusionato.

Poi inzia la partita. Ho una scossa di adrenalina che da un punto remoto mi sale nel petto per poi incarnarsi negli occhi che vorrebbero parlare.

Ora, di là dalla rete, c'è il mio demone che si sublima come incenso nell'aria.

Il tennis, una microstoria incastonata non so come nelle mie settimane.

Inizialmente si tratta di sopravvivere alla forza atletica di Lorenzo che, oltre ad essere avvocato, è un buon calciatore. Ha l'agonismo nelle vene.

Io ho girato tre o quattro sport nella mia vita, senza mai riuscire a convincere un allenatore delle mie capacità. Finivo sempre per giocare le prime partite, scatenare una tempesta di aspettative, e poi passare il resto del campionato in panchina.

Ma adesso no. Ora è diverso. C'è qualcosa che mi dice che ne va del mio onore, non verso qualcuno, ma verso un'idea di me stesso. Arrivato a 28 anni io so che posso vincere questa partita. Lo devo fare, per rispettare l'amicizia con Lorenzo, perché se io non sono un muro di gomma ai suoi colpi, lo costringo a trovare nuove soluzioni, ad angolare i colpi, ad essere creativo.

Qui non c'è nessuno che può comprare il risultato. Una goccia d'acqua cade dal soffitto del pallone facendo una piccola fossa nella mia metà campo. Fuori sta continuando a piovere.

Tra noi si consuma una storia, un equilibrio fatto di distanze, di continue ridefinizioni, di crolli dell'uno o dell'altro, di colpi inaspettati che portano l'altro a muoversi come mai avrebbe potuto fare. Ognuno di noi cerca di vincere in un gioco che ci incatena insieme. Sia il vincitore che il perdente usciranno cambiati dalla sfida di stasera. E si aprirà così un nuovo capitolo della nostra amicizia.

A un tratto, sul 5 a 4, si apre la porta del pallone di plastica, alle mie spalle.

– No, cazzo – sussurro.

E' Dimitri, ne intravedo la figura quadrata, la pelle liscia da eterno adolescente, con la coda dell'occhio. Dimitri è subentrato da qualche mese alla gestione degli impianti sportivi. E' rumeno. Le cose tra noi non sono andate bene fin da subito. Arriva qualche minuto prima che scada la nostra ora, comincia a camminare su e giù sulla fascia laterale dicendoci di far presto, perché deve chiudere. Questo non lo posso sopportare. Dopo una giornata passata in biblioteca al dipartimento di sociologia, ad interrogarmi sul concetto di libertà nella società industriale, non posso accettare che qualcuno disturbi la mia ora di libertà fisica, motoria, che mi sono guadagnato e che ho pagato.

Ma lui insiste, vuole chiudere. Ho provato a fargli notare che mancano ancora cinque minuti. Ma lui continua a presentarsi puntualmente nei momenti più intensi della partita.

C'è inoltre una cosa ancora peggiore. Dimitri si è convinto che io ce l'abbia con lui perché è straniero. Non sente ragioni. Quando vado a pagare il campo non mi guarda nemmeno negli occhi, si chiude in una specie di integralismo di minoranza, fa la faccia afflitta come un profugo e ogni volta mi fa sentire una merda.

L'altro giorno, erano appena passati cinque minuti dallo scadere dell'ora, è entrato in campo e ha cominciato a rastrellare la rena mentre ancora stavamo giocando, senza dire una parola. Va bene Dimitri, sei stanco, lo capisco, ma caspita, avrai venticinque anni, potrai resistere in piedi fino alle dieci e mezzo?

Oggi Lorenzo ha trovato una strategia per permetterci di finire la partita.

– Allora Dimitri, facci da arbitro per queste ultime palle. Dai, per favore.

Lui guarda un po' Lorenzo, un po' la rete, poi si sistema sulla sedia da arbitro e lascia andare un «Vai» strascicato.

Sono alla battuta. Voglio chiudere il game. Frusto una prima palla a grande velocità, ma il suono non è dei migliori, qualcosa di intermedio tra il piatto corde e il materiale plastico-sintetico della racchetta. La palla si schianta sulla rete e poi rimbalza sulla mia metà campo. Ho una seconda possibilità. Batto molto lentamente, per assicurarmi di non fare doppio fallo. La palla vola dall'altra parte. Mi preparo ad accogliere il colpo di Lorenzo.

Quando sento una voce che mi fa rabbrividire.

– Out!

– Out? Ma cosa...

Dimitri scende e prende il rastrello accingendosi a pulire il campo.

– Ma... ma se era dentro di mezzo metro?

Lorenzo dall'altra parte è rimasto fermo, non sa cosa dire.

Lo guardo. Avrà anche lui visto qualcosa.

– Tommy, onestamente sembrava anche a me fuori.

Mi ci vuole un po' per ritrovare la calma. Giro per tutto il campo raccogliendo palline. Le conto, ne perdo una, due, le raccolgo, le conto un'altra volta.

Poi ci dirigiamo tutti e tre verso la segreteria, dove dovrò pagare. Dimitri con la sua aria spaesata o sorniona, forse un misto di entrambe le cose. Lorenzo che continua a ripetere «bella partita, intensa, combattuta, no?», cercando di farmi sorridere. Io con la racchetta che spunta dalla borsa e, nell'altra mano, l'ombrello.

Entriamo nella stanzina. Dimitri apre il suo registro.

– Ah, Morozzi. Avevi due campi.

– Due? No no, io sono Colozza.

– Caspita, è vero. Hai ragione.

Poi accade un fatto. Qualcosa di insignificante, ma che fa la storia. Trovo chissà dove un briciolo di felicità e dico: – Morozzi, Colozza, hai ragione, siamo simili.

Dimitri prende i soldi e per la prima volta mi guarda negli occhi. Ha il viso glabro, luminoso, le guance un po' infantilmente arrossate. Sorride.

– Grazie –, dico, e mi allontano con Lorenzo che è già qualche metro avanti, e guarda la pioggia sottile cadere sulle lamiere delle case.

  • Sarà che a me le storie di sport piacciono sempre ma l'ho apprezzato. Solo un appunto: cambierei immagine di copertina, non dà nessun'imbeccata sul tema del racconto, è un po' fuorviante.

    · Il y a environ 10 ans ·
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    Dario Landi

    • Grazie Dario, l'immagine di copertina l'ho pescata dal mio computer. Una racchetta da tennis non è che mi convincesse di più... Te che ci metteresti? Ho letto il tuo racconto, l'ho trovato minimale, nel senso che potrebbe nascerne qualcosa di più grande, ma efficace. Il problema del lavoro è molto attuale, la fantascienza ne rende le sfumature emotive. Buona ispirazione : )

      · Il y a environ 10 ans ·
      P1010153

      tommasomeozzi

    • Non saprei. Pensa al concetto cardine del racconto (magari incarnato da un oggetto o da un luogo) e poi fai una ricerca google images. Hanno da poco implementato la possibilità di cercare solo immagini libere da diritti.
      Altrimenti ci sono siti appositi per scaricare "immagini stock" anche quelle senza diritti.
      Grazie per i complimenti, cmq.

      · Il y a environ 10 ans ·
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      Dario Landi

    • buona idea, il "concetto cardine". E grazie per il tipp di google

      · Il y a environ 10 ans ·
      P1010153

      tommasomeozzi

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