La teoria del complotto
Gianni Vannini
Rimango francamente stupito dal verificare come persino autorevoli intellettuali, dal comprovato rigore metodologico e non sospettabili di superficialità, si lascino tentare dalla suggestione della “teoria del complotto”. Fino a che punto, mi chiedo, è lecito addentrarsi in una critica sistematica del capitalismo moderno nella sua tentacolare e multiforme pervasività senza cadere inavvertitamente nel complottismo? Fin quando ci si riferisce ad avvenimenti storici documentati, come l'Olocausto o lo sbarco dell'uomo sulla Luna, posso capire che ogni forma di negazionismo abbia buone possibilità di sconfinare nella ossessione paranoide ma se, per esempio, parlando della strage delle Twin Towers (senza volere minimamente sottovalutare la portata della tragedia né ignorare il pericolo derivante dall'estremismo islamico) qualcuno ponesse l'accento sui rapporti di affari tutt'altro che limpidi tra la famiglia Bush e Osama Bin Laden stiamo scivolando nella teoria del complotto o ci limitiamo a riproporre doverosamente domande a cui nessuno si è mai degnato di rispondere? E ancora: è complottismo dire che la maggior parte delle decisioni riguardanti il destino dell'umanità vengono prese in funzione degli interessi del grande capitale? Non è necessario ipotizzare che ogni singolo agente di questi processi sia un prezzolato esecutore di ordini impartiti da fantomatiche e misteriose organizzazioni modello SPECTRE per poter dare un giudizio “politico” e “storico” sul suo comportamento e per valutare la sua presupposta “indipendenza”. E' necessario, a mio avviso, sgombrare il campo da ogni forma di pregiudizio ideologico, sia quello che dipinge il nemico come un mostro dalle cento teste tanto più invincibile quanto più assurge alla dimensione del mito e perde di consistenza reale sia quello che banalizza qualsiasi forma di pensiero critico, inscrivendolo in una discutibile cornice goffa e dilettantesca.