SAN BARONTO (Omaggio ai semidei)
Lucilla Gattini
1960. Un anno particolare per me. Per l'Italia l'inizio di un periodo destinato a segnare l'immaginario collettivo. Cominciava un nuovo decennio e il paese si lasciava definitivamente alle spalle il periodo più nefasto della sua storia; la seconda guerra mondiale, per chi l'aveva vissuta, assumeva lentamente i colori sfumati del passato, le cicatrici si confondevano col tessuto che le anime andavano ricostruendosi e la paura sembrava poter diventare solo un brutto ricordo. I bambini del “dopo guerra” già diventavano ragazzi, allevati tra i racconti di nonni e genitori sulla trascorsa emergenza e con superstiti abitudini in procinto di scomparire. Quasi convinti di avere essi stessi ascoltato radio Londra se ne dimenticavano di fronte al magico schermo della televisione che aveva ormai conquistato in molte case il suo privilegiato angolo, nei salotti ancora colmi di mobili austeri o male in arnese ma sempre più spesso irrigiditi in arredamenti svedesi che imponevano a gran voce il nuovo, il trionfo di strutture metalliche filiformi supportanti legni chiari, e del mobile bar. Il rosolio e il vin santo umiliati e negletti erano fuggiti portandosi via i relativi bicchierini, si beveva whisky come i divi dei film americani non confessando di trovarlo molto simile all'acido fenico, e il brandy in recipienti a palloncino che i più raffinati scaldavano, come suggerito da una nota pubblicità.
La faticosa ricostruzione si stava velocemente trasformando in benessere e il "boom economico" faceva intravedere i suoi allettanti luccichii insieme alla promessa di un futuro di agi e prosperità. La classe operaia a onor del vero non aveva migliorato troppo le proprie condizioni ma il lavoro c'era e la gente cantava ancora, sui palazzi in costruzione, dai terrazzi, dalle cucine e dai bagni di casa o sfrecciando in bicicletta. Le automobili aumentavano a vista d'occhio, il sogno che accomunava proletariato e piccola borghesia era ormai l'utilitaria, concessa alle inesperte mani dall'epifanico dilagare della cambiale, così come il frigorifero e altri elettrodomestici miracolosi. Le vacanze estive stavano diventando un fenomeno di massa.
E quell'estate io andai a villeggiare in un microscopico paesino delle colline pistoiesi seguendo una famiglia di amici che possedevano lì una casetta. Prendemmo in affitto una stanza in casa di contadini, mia madre, mia sorella di tre anni e il fratellino che per noi aveva inaugurato felicemente l'anno con la sua nascita. Mio padre ci raggiungeva nel fine settimana e una volta mi sconvolse arrivando col volto completamente rasato: io non lo avevo mai visto senza i baffi e ne ricevetti un senso sgradevole di mutilazione, troppo piccola per sospettare che all'origine del gesto ci fosse forse il desiderio di un bel trentottenne di apparire ancora più giovane.
Arrivando nella località di ferie non potevo immaginare che lì avrei trascorso il periodo più bello e memorabile della mia fanciullezza, e non per le bellezze del luogo – piuttosto limitate – ma per il tipo di vita che vi si poteva condurre, assolutamente libero dalle restrizioni imposte dalla città. Giravo a mio piacimento osservando usi a me ignoti e talvolta sconvolgenti come la volta in cui con la disinvoltura dell'abitudine e l'eterno sorrisino furbastro sotto i baffetti il padrone spellò di colpo un coniglio appeso suscitandomi un orripilato e incancellabile raccapriccio.
Seguii il consiglio di mettere una lucciola sotto un bicchiere e fu bello nel buio vedere l'intermittente chiarore dietro il vetro, il mattino seguente però nella trasparente prigione giaceva morto un insettino scuro pateticamente insignificante che sembrava denunciare la mia inutile crudeltà. Ne fui mortificata e mi sentii colpevolmente sciocca.
Dopo cena il progresso affermatosi d'autorità sotto forma di juke-box consentiva le danze in una rustica arena di fronte a noi: mai più ho potuto ascoltare la colonna sonora di “Scandalo al sole” senza ricordare quelle notti di agosto.
A due o trecento metri dall'abitazione, seguendo una strada non molto transitata, cominciava una specie di boscaglia, preceduta da una radura con un piccolo bar dove si sistemavano mia madre e altri adulti a chiacchierare mentre io imbrancata con tutti i ragazzini maschi, locali e villeggianti, sparivo nel paradiso di more da cogliere, rovi da superare, spiazzi da conquistare per erigervi fortini di pietre ammucchiate e poi litigare nel tentativo di stabilire le gerarchie guerriere.
Fin qui però niente di notevole, banalissimi aneddoti di normalissime vacanze. Ciò che rese speciale quell'anno furono le Olimpiadi di Roma. Speciale per tutta la nazione, elettrizzata dall'evento, e per me. Per la prima volta l'orgia di sport fu seguita in televisione e nessuno ha mai dimenticato il senso di eccitazione fuso col calore, con i nomi strani ed esotici di atleti giunti da lontano facendo sentire gli italiani immersi nella modernità e prossimi ad affrancarsi da mentalità ristrette. Anche il baretto dei nostri pomeriggi possedeva un apparecchio da cui sgorgavano animatamente le voci dei telecronisti che rimbalzando sui genitori e sui loro commenti gradualmente contagiavano noi ragazzi. Ovviamente molti dettagli sui campioni e le loro mitiche prestazioni li ho approfonditi più tardi, nelle tante rievocazioni, ma sempre sono stati assorbiti dalla memoria proprio come se li avessi totalmente gustati allora, tra gli sterpi polverosi e il gelato mottarello. Quando alcuni anni più tardi Cassius Clay diventò un mio idolo neppure mi ricordavo che avesse partecipato a quelle Olimpiadi… Eppure lì si rivelò, un giovanottone diciottenne che vinse l'oro dei medio-massimi e a lungo avrebbe rappresentato il volto appassionato e candido del pugilato, il fuori classe assoluto nato per stravolgere tutti gli stereotipi della sua disciplina e imporre un modello umano inedito e sorprendente. Il vigore vestito di eleganza, la tecnica apparentemente distratta in una danza incalzante, inesorabile, ammaliatrice. Il viso accattivante, il fisico maestoso e bellissimo, la provocatoria verbosità. La verità della sua rabbia. Vedendolo boxare nemmeno i più intransigenti detrattori di uno sport considerato da molti violento, selvaggio, incivile, potevano sottrarsi al fascino dell'ape e all'incanto della farfalla.
Impossibile guardare oggi quest'uomo, che sembrava sceso da uno strano Olimpo, senza asciugarsi una lacrima furtiva per l'impietosa ironia della patologia che con la cieca imparzialità delle malattie lo ha colpito.
Poi Abebe Bikila. Approdò dall'Etiopia in quella capitale da cui un quarto di secolo prima era partita la roboante conquista del suo paese. Era agente di polizia e guardia personale dell'imperatore Haile Selassie, corse l'intera maratona scalzo e i suoi piedi nudi che calcavano il suolo degli ex-conquistatori diventarono il simbolo dell'Africa affrancata dal colonialismo europeo. Medaglia d'oro, la prima olimpica per il continente nero. Bissò il successo quattro anni dopo malgrado un'operazione di appendicite che gli aveva fatto perdere parte degli allenamenti. Nel 1969 un incidente di macchina gli tolse l'uso delle gambe e l'affettuoso interessamento di tutto il suo popolo non poté ridarglielo, confermò la sua tempra gareggiando nel tiro con l'arco e nel ping pong ma a quarantun anni un'emorragia cerebrale lo stroncò. Lo stadio di Addis Abeba è intitolato a suo nome.
E come dimenticare la “Gazzella Nera”? La cinica, disincantata città eterna coniava soprannomi leggiadri per gli eroi della sua estate di entusiasmi e fu colpita al cuore dall'armoniosa potenza di Wilma Rudolph che arrivava, per correre, dal profondo degli Stati Uniti e come in un film progressista di anti razzismo proponeva l'incredibile testimonianza del suo coraggio, della tenacia con cui una bambina povera e di colore, ventesima di ventidue figli, non solo aveva sconfitto la poliomielite ma si apprestava adesso a scrivere una pagina clamorosa nel grande libro dell'agonismo. La caparbia energia che le aveva fatto sopportare anni di apparecchio ortopedico a una gamba, che l'aveva sospinta a piedi per interminabili chilometri due volte a settimana verso l'ospedale dove svolgeva la riabilitazione, si trasformò in paio di invisibili ali. I suoi vent'anni, le sue falcate decise di felina eleganza, conquistarono tutti e le consegnarono tre medaglie d'oro: nei 100 metri coperti in 11” netti, nei 200 metri e nella staffetta 4x100.
Come se un fato oscuro avesse decretato per lei soltanto un intermedio periodo felice, dopo l'inizio così travagliato la morte la colse per un tumore a cinquantaquattro anni.
La smania sempre in agguato di coltivare e commentare romanzetti rosa spinse la stampa e il pubblico a immaginare una storia d'amore tra Wilma e il campione nostrano Livio Berruti. L'intesa non fu mai minimamente provata e sempre smentita dagli interessati anche a distanza di decenni, e se supremo disinteresse avrebbe suscitato in me bambina sentendone parlare, altrettanto ne provoca adesso: se come sembra ci fu solo qualche passeggiata verso sera, o se nei tramonti barocchi dell'Urbe un sogno appena accennato abbia unito brevemente due ragazzi veloci come le frecce di Cupido non è cosa che possa riguardare altri che loro. Ciò che la storia ha scritto è che anche Livio dagli occhiali scuri ebbe il suo attimo di immortalità vincendo i 200 metri piani davanti ai favoriti statunitensi. Quello che invece nessuna cronaca ha mai narrato è che lo fece nel momento esatto in cui io davanti al baretto di San Baronto tagliavo per prima l'ideale traguardo delle nostre continue corse infantili, che la mia esultanza personale coincise con le grida frenetiche del cronista e con lo scoppio di ovazioni provenienti dai presenti e dal video in bianco e nero. Che io di certo impallidii per l'emozione quando tutti gli sguardi dei miei compagni si appuntarono increduli su di me e che per qualche giorno io fui la bambina "che ha vinto la corsa insieme a Berruti", sbaragliando le superstiti riserve sul mio sesso e conquistandomi rispetto e ammirazione. E forse non dovrei dirlo ma neppure gli episodi più gratificanti della mia vita di artista hanno potuto fino ad oggi eguagliare il piacere travolgente di quell'attimo glorioso.
Brava!!!! È stato un periodo importante da non dimenticare, si e' coinvolti dall'emozione della tua scrittura !!
· Il y a plus de 10 ans ·Gabriele Poli
Grazie...Noi c'eravamo!!!!
· Il y a plus de 10 ans ·Lucilla Gattini
anche io... ma ricordo solo papà che arriva senza baffi, le lucciole sotto il bicchiere e una vespa che mi ha punto su una gota!
· Il y a plus de 10 ans ·Saveria Gattini
Piccolissima eri....
· Il y a plus de 10 ans ·Lucilla Gattini