Whatabout
Agnese Maria Fortuna
Whatabout era un affarino minuscolo per la sua età, ma ne era contento: così, si nascondeva facilmente ovunque, confondendosi senza sforzo tra le cianfrusaglie. Del resto, era d'aspetto ordinario e nessuno aveva mai ritenuto di doversi curare di lui o delle sue sorti. C'era talmente abituato che si sarebbe sentito a disagio altrimenti. La vita che conosceva si adattava ai tempi dei randagi, e con loro si ritrovava più parente che con qualsiasi altra forma di vita. Perciò si era imbrancato con i gatti dei vicoli intorno a casa. Aveva imparato a fare come se fosse nato gatto, sgranando gli occhi col corpicino rigido e flessuoso, in attesa degli eventi. Sapeva percepire l'incresparsi dell'aria che preannunciava un cambiamento. I suoi sensi erano duttili al variare delle ombre, e capiva come leggere nelle inflessioni dei gesti tutto quanto era necessario per evitare ogni contatto.
Whatabout si era assuefatto al linguaggio in maniera perfettamente mimetica: accadeva così di rado che qualcuno gli rivolgesse la parola. Così, quando gli capitava di parlare, per lo più con i felini acquattati tra i rifiuti nei retrocortili del quartiere, non era per dire qualcosa di suo, ma una messa in scena dell'abilità nella ripetizione. Impersonava delle parti: e il suono delle parole non sue gli risultava di un fascino posticcio da cui traeva il godimento di un perfetto estraniamento. I gatti lo guardavano interdetti, mentre accompagnava quei vaneggiamenti con gesti calcolati per renderle ancora più incongruenti. Mischiava le carte del mazzo e le lasciava cadere per vedere cosa ne sarebbe mai potuto venir fuori.
Quando si svegliava, a volte a notte fonda, prima di tutto si esercitava a prendere possesso del corpo: si dilungava negli arti fino al limite, e si allargava ansando, annaspando tra le lenzuola sempre mezze, svagolando in un mare di ortiche d'acqua marina, tra cozze tintinnanti e polpi con occhi di granchio e peduncoli aguzzi come carta appena rifilata. Il ruvido delle coperte lo trascinava nel folto di un sottobosco arido e stepposo: allora, con un balzo, scavalcava canaloni da cui risorgeva vento e ululo di terra smossa dalla grandine. Sognava di cavalcare la saetta, atterrando in cima a un campanile, il cui tetto scosceso tremava tutto per l'urto cupo e insistente di campane che suonavano da sole. Si accorgeva di stringere nella mano ferita qualcosa che sembrava di carbone ardente ma non bruciava: si consumava pulsando in quella cosa, perché era vivo. E la mano ferita, a quel contatto si rimarginava.
Poi c'era sempre troppo silenzio. Ma lui, nel silenzio, si sentiva a casa: aveva il suo stesso sapore, acidulo e domestico, l'odore della pelle di bambino prima del sapone. Nel silenzio erano rinvoltate tante cose. E venivano fuori come da una coperta un poco lisa, giocattoli cercati a lungo, da molto tempo dimenticati. A volte erano grumi di voci, a volte gesti, a volte frammenti di storie, non scritte ma scolpite in una materia docile e incandescente, a volte compresenze estraniate nella loro geometria, sbilanciata e speculare come i vetri nel caleidoscopio. Dove c'era silenzio, c'erano ombre, e colori riposti nell'ombra. E dall'ombra traluceva la luce, come dalla coperta lisa. Ed era qualcosa di prossimo allo starsene stesi in una piazzola arruffata d'erba, con gli occhi sgranati, persi nell'intrico dei verdi, dei bruni e degli oro. Ansiosi d'indaco, che segna i meandri misteriosi della linfa. Ascoltava il silenzio come l'assetato beve alla sorgente, il vero cibo, l'unico refrigerio.
Quando poi il silenzio si arrochiva nel rovescio da interno di conchiglia, assorbendo l'eco di rumori remoti, circostanti, gli pareva di essere il paradiso. Ma si sentiva un ladro, anche se era felice, perché capiva d'essere un paradiso che non aveva molto a che fare con i santini, e i rosari, e le corone di spine. Era così felice che lo spasimo riapriva la ferita: ma non era il dolore dei santini, dei rosari e delle corone di spine. Era il dolore, d'oppressione e di taglio, del lasciare che le cose venissero a galla, soprattutto, annaspando verso la luce. A un certo punto non ce la faceva più, e si rialzava intontito, in preda alla vertigine. La nausea persistente che gli restava come feccia di limo, lo forzava a rintanarsi in qualche trivio, a mendicare gatti e covi, fracasso irriverente di bidoni per baruffe di bestie, caos rumore e perdizione.
Questa sensibilità all'infimo era la sua forza e il suo tallone d'Achille: ci mancava sempre un pelo, e si sarebbe disfatto nella luce che intrideva l'ombra, nelle concrezioni di eco e di riverbero, nelle linee in tensione della linfa, nel suo intrico da estuario senza foce. I gatti invece arruffavano la pelliccia, scuotendosi nervosamente, e poi si perdevano a lisciarla con protervia fino a farla lucida come l'acciaio, il più duttile, nervoso, scintillante. Spalancavano le fauci in sbadigli enormi come le bocche del giorno e della notte, stiravano le zampe fino a farle vibrare e, inarcando il dosso, si scrollavano l'inedia di dosso, dalla punta dei baffi fino alla coda, nell'accordo perfetto di contro a tutto il circostante. E poi, via: radenti, quatti e veloci, cauti, perfettamente all'erta. Ciascuno sapeva sempre dov'era l'altro: non c'era verso di perdersi, neppure nella perlustrazione del più liminare e ostile dei territori.
Il nemico era il mezzogiorno: l'ora ferma, che durava oltre ogni misura, senza dar requie, nell'ostensione indifesa priva di remissione, quell'ora fissa che batteva e ribatteva su se stessa, e non sembrava mai paga. Quanto durava il mezzogiorno! Era il solo momento della giornata in cui Whatabout rimpiangeva l'esistenza umana comune. I gatti evitavano saggiamente il mezzogiorno, fissando attoniti i minuti spossanti, acciambellandosi su se stessi per tagliarsi fuori dal non trascorrere dell'ora.
Per un certo periodo, mosso dal medesimo spirito mimetico che lo guidava nell'apprendimento della lingua, Whatabout si era forzato a rincasare come vedeva fare agli altri: ma la cucina vuota, implosa nell'ombra e satura di cibo stantio, era per lui, né più né meno, il presagio della tomba. Si accucciava allora sotto la tavola di formica, e lacrimando con stizza si metteva a contare le briciole disperse, una dopo l'altra spingendole fino ai bordi delle impronte di scarpe non sue, disegnando isolotti incerti sul linoleum scolorato dall'abuso. A volte si addormentava in mezzo a quell'arcipelago, finché una sedia smossa non lo stanava come una bestia che si sveglia in una trappola e cerca scampo. Allora si drizzava scontrosamente, e si faceva da parte, schivando ansiosamente le masse semoventi che abitavano la cucina.
Non mangiava mai a mezzogiorno. Aveva imparato che l'unico scampo possibile a mezzogiorno era il sonno, il più duro che c'è. Poi ci pensava la fame, che gli era amica, a risvegliarlo, quando non c'era più nessuno. Il godimento dei rimasugli lo doveva ai gatti. Bastava lasciarsi guidare dall'istinto. Il trucco stava nell'approfittare delle abitudini altrui, e nello stare all'erta. L'arte dello scarto.
Il vicinato era pieno di bambini: ma Whatabout sapeva che abitavano un mondo in cui non avrebbe saputo come fare per non sentirsi un estraneo. Sicché, dopo alcuni episodi incresciosi, metteva tutta la cura di cui era capace per evitarne il richiamo. Imparava dai gatti, che diffidano sommamente dei bambini, mentre sanno bene come trarre vantaggio dalle consuetudini degli adulti.
Quando, a sera, dopo una giornata di resistenza randagia, si faceva forza, e varcava ancora la porta di casa con lo sguardo perduto di un naufrago che percepisce la prossimità di una riva ostile, nell'indifferenza generale si appartava per compiere il rito: appena l'uscio rimaneva socchiuso, s'infilava nel bagno e, così com'era, con i panni e con le scarpe e la polvere e il sudore ancora indosso, si sedeva nella vasca e apriva l'acqua. Fradicio e stanco, si raggomitolava poi tra lenzuola e coperte, il suo nido di bruco, affondando in un sogno che sapeva di vertigine.