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Dario Landi

Autobiografia brutta ma necesssaria di cinque anni fra big mc morfina patate fritte e puttane.

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Il primo agosto saranno cinque anni di lavoro a mcdonald's.

Dov'è la rabbia dei primi giorni, quel mantra “è solo per pochi mesi, per pochi mesi, pochi mesi, pochi mesi”?

Dove sono io?

Smarrito. Disperso.

In un deserto vasto come un anno e mezzo di disoccupazione e ancor di più in quest'oasi, verde solo all'apparenza, come il finto legno in cui è costruito il mc.

Pur di abbeverarmi alla sorgente di striminzite buste paga, mi sono abituato a questo lavoro.

Se non fosse lesa maestà non mi stupirei, pensando come Imre Kerstez, in “Essere senza Destino”, dica che pure al lager ci si abitua. E allora che sarà mai un mcdonald's.

L'abitudine, poi, la aiuta la natura stramba di questo locale. Pochi clienti, colleghi fuori di testa, indisciplina diffusa.

Il mio primo capo fu Bruno, uno squallido brasiliano di oltre cento chili. Una forma di mio alter ego, penso ora.

Era magro, ballerino capace, ma un incidente gli schiantò le gambe e lui soffocò le sue ambizioni in una montagna di grasso. Questa forse l'ho scansata. In cinque anni sono sceso da cento chili a ottantacinque, e ho uno stile di vita, paradossalmente, molto più salutare.

Bruno era un violento capace di farmi piangere perchè non sapevo quanti grammi esatti di cipolla vanno in un big mc (adesso lo so, sette) , e una volta frustò tanto forte con una cintura uno dei miei colleghi cingalesi da lasciargli tutt'ora il segno.

I cingalesi: ci riferiamo a tutti loro come “talebani”. Fu Bruno a dargli questo nome. Orientali, musulmani, ergo associati ai famigerati studenti del Corano.

Lavorano per pagare il matrimonio con una moglie ancora in Sri Lanka, che li raggiungerà, che forse conoscono appena, e con cui parlano per lunghe ore nelle pause.

Mi scherniscono spesso perchè a trentadue anni ancora non sono sposato nè ho figli, e per loro questo è strano e grave al tempo stesso.

Vorrei dirgli che anche il loro sistema ha delle falle, ma taccio, limitandomi a guardarli mentre tentano di gestire , a ventitrè anni, problemi più adulti di loro.

Isham adesso è sposato ed ha un figlio, ma si dice che ne abbia anche un altro, a Paermo, o forse due.

Anas, il più grande, ha problemi con la futura moglie, e alla fine è giunto alla rottura coi genitori, che hanno organizzato il matrimonio: lui non vuole sposarsi, è scappato di casa, e il padre gli ha sequestrato il passaporto.

Anas ha fatto denuncia di smarrimento e spera di poter partire presto, all'insaputa dei genitori, proprio per lo Sri Lanka, per non tornare più in Italia.

Eppure, per quanto stiamo accanto ogni giorno da cinque anni, non riesco a provare una vera empatia per queste persone.

So pochissimo di loro.

Jimmy, il mio collega albanese soffre ancora la morte della famiglia nell'incendio della sua casa? Sembra di no, si è risposato, ha un figlio, ma una volta l'uomo che causò l'incendio venne a mangiare da noi, e lui disse che o se ne andava, o lo uccideva.

Come ha perso il padre Ignacio, il mio collega uruguagio? Al massimo mi spingo a chiedergli se la sua famiglia tifasse Penarol o Nacional, laggiù a  Montevideo.

Ogni tanto nelle pause più lunghe, andiamo a  casa sua a giocare alla play. Di suo padre c'è una foto sul mobile in salotto. Mostra un bell'uomo, colto durante un accenno di risata. Assomiglia un po' a Socrates, l'inventore della "democrazia corinthiana" che giocò anche a Firenze.

Giorni fa è passata una serata difficile, troppi clienti e pochi di noi. Alla fine Anas e Ignacio sono venuti alle mani. In un accesso d'ira d'Ignacio, esploso perchè mancavano i panini, è volato un pugno

Qualcuno mi gridava di andare a separarli, ma al di là del fatto che stavo servendo dei clienti, m'è rimasto difficile muovermi, agire, e più tardi, in macchina,  sulla via del ritorno sotto "Instant Crush" dei Daft Punk, mi chiedevo se anch'io fossi caduto così in basso da mettere eventi tanto miseri, quali un cliente che aspetta troppo a lungo dei panini, al centro della mia vita.

Ignacio, Anas, e gli altri hanno poco o nulla oltre il mc e veder messa in dubbio la loro capacità nello svolgere questo lavoro li accende di una rabbia profonda.

Forse dovrei provare compassione, ma non ci riesco, la paura mi frena. Io so pochissimo di loro, ma loro niente di me. Non ho mai raccontato nulla di personale in questi cinque anni, e se mi pongono delle domande intime fuggo.

Ognuno dà un senso alla propria vita come può, piuttosto che perdersi nel niente, ma ho il terrore, specchiandomi in loro,  di scoprire che anche le mie speranze sono all'ultimo tiro di sigaretta,  e mi limito a lambirli con una battuta, un aneddoto, quasi fossimo l'uno per l'altro nient'altro che morfina, utile per non sentire il dolore del tempo trascorso.

L'esempio perfetto è Andrea, un ragazzo di Barberino. Ogni tanto dice che se mandano via me se ne va anche lui.

Fuori d'Italia s'è spinto solo a Ibiza ma tatuato sul braccio ha un demone giapponese da 1500 euro. Oltre che dai periodici sequestri della macchina, la sua vita è scandita dal suffisso -ina. Nicotina, cocaina, chetamina. Giorni fa hanno arrestato un suo amico, e spesso entra a lavorare con canne mezze fumate nei pantaloni. O non entra proprio.

Ci spalleggiamo a vicenda in un atteggiamento ribelle, salutiamo i talebani pugno contro pugno come i rapper, coltiviamo una "straight outta Compotn, fuck tha police" mitopoiesi basso urbana.

Se c'incontriamo fuori a stento ci salutiamo.

Oppure Minajh, l'ultimo talebano arrivato. Ha le mani nodose, già coperte di tagli, cicatrici e ustioni, perchè lavorando non usa alcuna attenzione, nè protezione. Gli altri parlano un italiano stentato, fatto di verbi all'infinito, lui nemmeno quello. Il nostro dialogo tipo è

“ Dario, un domanda”

“Dimmi Minajh”

“Fanculu!”

“Fanculu tu Minajh”.  

Lui ride, io mi sento superiore, più intelligente, solo per  reputarmi un'ipocrita attimi dopo.

E' la grande vittoria di questo posto, e del demone dell'abitudine che lo abita:  farmi sentire in colpa perchè forse delle qualità, un qualche talento, li ho davvero.

Ma non posso trovare qui la forza di realizzarli, non sono quegli ottocento euro in più ogni mese che mi porteranno dove vorrei arrivare.

Una volta la settimana lavoro anche in un centro giovani qui in zona. Ieri uno dei ragazzi, mi ha detto “cerco un lavoro, metto via qualche soldo, e quando ho raggiunto un cifra giusta, decido cosa fare della mia vita”. Non parlo quasi mai spontaneamente, non parlo quasi mai, ma non potuto trattenermi dal rispondergli di non aspettare la cifra giusta, perchè non esiste, è una menzogna autoinflitta, come un cavallo che si mette da solo la carota davanti al muso.

Un nuovo impegno, un nuovo desiderio la spingeranno sempre un passo più in là, dietro la prossima duna oltre cui non vedi ma ci sono solo altre dune, e ogni volta che l'avrai agganciata ti sfuggirà.

Achille l'uomo più veloce del mondo, non ha mai raggiunto la dannata tartaruga.

No. I miei talenti non si esprimeranno facendo notare a Eleonora che il verbo “pulire” non può declinarsi in “pulisciresti”, o sentendosi superiore perchè parlo di calcio coi colleghi ma amo di più il ciclismo.

O ridendo del nostro più caratteristico cliente abituale, la puttana del paese.

Voglio chiudere con lei perchè forse anche questo calco putrefatto di un personaggio di Sepulveda, ha immaginato di essere altro. Forse per quanto piccola, aveva un'aspirazione. Forse non è sempre stata questi centoventi chili biondo platino, stretti in collant leopardati, che ci usano come base per fissare gli appuntamenti coi clienti da consumare poi nell'hotel a fianco, e che adesso mi stanno davanti, dall'altra parte del bancone.

Sono corso a servirla, precedendo i colleghi per farmi due risate, ed avere un aneddoto da raccontare la sera agli amici.

Ma lei parla tenendo gli occhi bassi, la voce udibile a stento, in un tono assente che suggerisce il distacco, avvenuto ormai troppo indietro nel tempo, da una realtà che se anche avessi abbastanza fantasia non vorrei immaginare.

Provo compassione, e mi pento di aver voluto ridere di lei come mi pento di tutte le energie dissipate nelle piccole miserie di questo posto, buone solo a farmi sentire ogni mattina come uno di quei pellicani vittime di un disastro ambientale, che nelle immagini dei TG si dimenano tentando un volo ormai impossibile, mentre il petrolio gli incolla sempre di più le ali al petto.


“E quando cala la sera
mi chiedo com'è che ognuno ha già la propria carriera
e io attendo ancora la mia
mia
come gli ebrei il Messia”

"Low Cash", Dargen D'Amico.


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